CRISTO TRADITO: ERA UN DISCORSO
Provavo sempre un senso di "gioco" - che non escludeva, naturalmente, la sincerità dell'impegno - ogni volta che giungevo alla conclusione d'un mio lavoro. Il rammarico d'aver dovuto lasciar fuori proprio quelle realtà che mi stavano di più a cuore (anzi, mi dicevo, le realtà che giudìcavo, in assoluto, le più importanti); e d'aver piuttosto impegnato "arte e mestiere" a rappresentare motivi e personaggi sentiti, sì, ma comunque un po'periferici al vero "nocciolo della questione". E questo senso di rammarico, questa consapevolezza di "gioco" crescevano quanto più consideravo vana la fatica d'uno scrivere che, tutto sommato, poteva ridursi al pascaliano "divertissement". Lo scrittore, grande o piccolo che sia, deve pur sempre essere un testimone della verità; iI suo vero impegno, la sua vera vocazione dovrebbe ridursi, in sostanza, soltanto a questo: testimoniare appassionatamente una verità. Oggi, io sono portato a misurare il dramma di uno scrittore dall'intensità del suo incontro con Cristo, poiché Cristo mi sembra, oggi più che mai, il vero segno di contraddizìone - dunque il vero segno drammatico - della nostra vita. E mi urgeva, così, da anni, iI desiderio - che si manifestava, talvolta, come rimprovero - di testimoniare a teatro Ie fasi, i momenti di questo incontro. Fu nel '43 (anno già lontanissimo non tanto alla memoria quanto allo stato d'animo), in giornate per tutti drammatiche - e non solo per le sorti del nostro vivere civile, ma per le sorti di una nostra improvvisa (improvvisata?) maturità morale e direi proprio cristiana - fu in quelle giornate gravi di combattimenti nelle quali, però, un po' tutti avevamo raggiunto un coraggio e un pudore di confessione e una sincera sete di concrete speranze che non abbiamo mai più, finora, ritrovati; fu allora che manifestai pubblicamente questa esistenza di Cristo in un discorso che aveva come titolo: "Cristo tradito". Era un discorso; non era, se non per una sua interna alternativa di dialogo, un testo teatrale. Direi però che c'erano già quei motivi e quei personaggi di dramma che avrei più tardi ritrovato. Ad offrirmi un'occasione di struttura più concretamente teatrale fu una nota a piè di pagina che lessi, nel '47, in una "Vita di Cristo". Vi si diceva che dei giuristi anglosassoni s'erano, fin dal 1933, posti il problema (problema a dire il vero, più giuridico che religioso) del processo di Gesù, e s'erano, più tardi, recati a Gerusalemme per ricelebrarlo pubblicamente, quasi dovessero sciogliere al cospetto e con la partecipazione del popolo ebreo un loro nodo di coscienza; e che, all'ultimo, la sentenza era stata d'assoluzione. Seppi, poi, che esistevano addirittura gli atti di questo processo e che ammontavano a un migliaio di pagine dattiloscritte; ma non ebbi modo di leggerle, e del resto non m'interessavano gran che. Quel che subito, invece, mi accese grandemente fu I'idea di quel "processo" fatto da uomini di oggi a Gesù di Nazareth. E dal '47 in poi ho lasciato che I'idea maturasse e prendesse luce e forma; e diventasse non solo un processo di ebrei a Cristo, ma piuttosto la cauta, risentita, dolente requisitoria che uomini di oggi fanno non tanto a Cristo, ma a se stessi, alla loro tenace e spesso oscura sete di speranza, e alla loro più inquietante e irragionevole paura di abbandonarsi alla speranza.
DIEGO FABBRI
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